La razzia dell’archeologia italiana continua, ma qualche luce s’intravede

 

Vennere di Morgantina
Venere di Morgantina

Lo stato dell’arte dell’archeologia italiana vede oggi qualche segnale positivo, anche se il nostro paese è sempre sotto attacco degli “spogliatori” di professione, ingolositi da una ricchezza, unica al mondo per varietà, qualità e quantità!

Sono duecentocinquantanni che l’archeologia italiana è nel mirino, e ciò accade nella diffusa indifferenza o, quantomeno, inconsapevolezza! Ma così facendo l’Italia si è letteralmente impoverita di un patrimonio incommensurabile. Quanto è oggi presente nei  musei italiani è, infatti, minoritario rispetto a quanto è stato contrabbandato al di là delle Alpi. Per limitarci all’oggettistica, la gran parte che è in esposizione nei musei del pianeta – a partire dalla numismatica, dall’oreficeria, dalla glittica etrusche e romane, per arrivare al vasellame, alle suppellettili, ai monili, ai busti, alle decorazioni – proviene quasi esclusivamente dall’Italia!

Ultimamente abbiamo dato uno sguardo alle spoliazioni avvenute  nel ‘7/’800. Ora è il turno del ‘900.

Il problema di fondo è però a monte: la scarsa coscienza del valore del nostro tesoro. La maggioranza degli italiani ha lasciato – e lascia ancora andar via – una parte significativa del suo straordinario patrimonio archeologico per ignoranza, insensibilità e ingiustificabile distrazione, accettando passivamente il furto.

Le parole di Raffaello a papa Leone X sono più che mai attuali:  “aver cura che quel poco che resta di questa antica madre della gloria e della grandezza italiana, non sia estirpato e guasto dalli maligni e ignoranti”.

D’altra parte i cittadini, non sono stati mai messi in condizione di rendersi conto, pienamente, di quanto possedevano e posseggono. E neppure oggi sono consci di quello che accade, sul territorio, all’arte antica.

Qui la mancanza è però anche di chi amministra il quale, nonostante rigorose leggi di tutela e numerosi tutori dell’ordine, non sensibilizza e, contemporaneamente, non combatte con le dovute risorse ed armi i dilapidatori, i quali operano spesso in pieno giorno, spesso indisturbati, spesso attrezzati di tutto punto. La caccia ai beni archeologici è, infatti, spietata: basti considerare il saccheggio subacqueo, ancora quasi completamente fuori controllo, o la razzia nei territori vesuviani, condotta indisturbata per mezzo di tunnel clandestini o quella svolta sistematicamente nei Campi flegrei. Gli attori sulla scena sono poche decine, ma migliaia sono le comparse, cioè i tombaroli, gli scavatori clandestini, i muratori e i contadini, ora muniti anche di attrezzature elettroniche, specie nell’Italia centro-meridionale. Al fianco, una rete di vendita e di movimentazione che non si immagina e che muove cifre colossali, essendo grande la voracità degli acquirenti nel mondo.

Il traffico illecito dei beni archeologici ad oggi costituisce la più grave forma di distruzione del patrimonio storico-culturale italiano e allo stesso tempo è una delle fonti di maggiore arricchimento, pari al mercato della droga o delle armi. L’Unesco ha calcolato in 2,2 miliardi di dollari annui il commercio delle opere saccheggiate in Italia, in Grecia, nel Sud-Est asiatico.

Il grande impegno,  sacrosanto e benemerito, profuso dai reparti dei Carabinieri preposti al recupero è spesso improbo di fronte al cimento. Anche perché è depotenziato dalle lungaggini burocratiche, procedurali e giudiziarie, spesso assurde, che vanificano la deterrenza: se rubi due mele sei condannato, se rubi una scultura eccelsa non vai in galera.

Vorremmo citare i nomi di predatori e commercianti, personaggi di altissimo livello, quasi tutti viventi, ma forse ciò non aggiunge nulla. Pertanto consigliamo al lettore curioso, che ami verificare e approfondire, uno strumento esaustivo con nomi e vicende su questo terribile fenomeno: Fabio Isman , I predatori dell’arte perduta, 2009.

Qualche esempio di opere inestimabili rubate però, con riferimento al ‘900, s’impone.

Il Vaso di Eufronio sottratto alla necropoli di Cerveteri e pagato dal Museo Metropolitan di New York  un milione di dollari; la Venere di Morgantina, acquistata dal Museo Getty americano per 18 milioni di dollari; l’incredibile e unico Trapezophoros  (complesso di reperti in marmo del IV secolo a.c. appartenuti ad una tomba dell’elite principesca dauna) acquistato sempre dal Getty Museum per 5 milioni e  500 mila dollari; la celebre Triade Capitolina, già venduta ad un collezionista svizzero per 5.5 miliardi di lire, era stata concordata per la vendita finale ad un museo per una cifra pari a dieci volte tanto, 55 miliardi di lire.

Queste opere, è vero, sono tornate in  Italia, ma dopo molti anni di estenuanti e complicatissime trattative.

Vaso di Eufronio
Vaso di Eufronio

Altri Paesi “spogliati” sono più attenti. Anzi, rilanciano. La Grecia sono anni che lotta con le unghie e coi denti per rientrare in possesso dei marmi del Partenone oggi a Londra, l’Egitto non lascia spegnere i riflettori per riavere da Berlino la stele di Rosetta e così fanno la Turchia e l’India per i loro preziosi beni archeologici.

Da noi si lavora di rimessa, mai in attacco.

Si aggiunga che, per conservare e valorizzare al meglio tale patrimonio, avremmo dovuto dotarci, oltre che di leggi inflessibili, anche di musei archeologici adeguati in dimensioni e strutture alla nostra smisurata ricchezza. Invece, scontiamo una gestione approssimativa e inadeguata, date le dimensioni ridicole del 95% delle nostre strutture espositive e l’estrema, perfino grottesca, moltiplicazione e frammentarietà delle sezioni archeologiche (due o tre ambienti in paesetti di mille abitanti, opere male didascalizzate, nessuna numerazione dei visitatori, scarsa vigilanza).

Se poi passiamo ai “grandi” Musei Archeologici Nazionali, vediamo che anche qui, pur di fronte ad una gestione accettabile, la consistenza è ancora sottodimensionata.

Le opere esposte nei due o tre più importanti “istituti” italiani sono, infatti,  la terza parte del Museo d’Orsay, la quinta parte del Louvre, la decima del Metropolitan e sono pure più modeste, in qualità e quantità, di quelle visibili nei Musei Vaticani. Figurarsi rispetto al Louvre o al British Museum o al MET  o a Berlino o perfino ai musei “occidentali” del Giappone..

Aggiungo una ulteriore considerazione di sistema: la sbalorditiva gestione “sparpagliata” delle grandi opere che ci fa invidiare la gestione dei musei stranieri. Ostaggio di presunte priorità, deformate e risibili, i nostri soprintendenti soffrono di “localite” e “filologite” acuta e hanno la fissazione di nascondere ai più le grandi opere. La meravigliosa Venere di Morgantina, ad esempio, è stata incantonata di al museo di Aidone, un paesetto sperduto di quattromila abitanti in provincia di Enna (dove la scultura in effetti fu ritrovata). Lo stesso è accaduto per il Trapezophoros, pagato dieci miliardi di vecchie lire, collocato ad Ascoli Satriano, un paesetto di poco più di cinquemila abitanti in qualche parte della provincia di Foggia. E potrei continuare (vedi).

Chiudo con una considerazione e una domanda.

Oggi le cronache riportano che lo Stato italiano sta rinvigorendo le iniziative per riavere il materiale trafugato dal suo territorio, anche grazie a nuove tecnologie d’indagine. Ed è vero che affiorano più frequenti le notizie di importanti opere bloccate all’espatrio o rientrate.

Bene, ammesso che una parte dei beni venga intercettata prima di lasciare il Paese o successivamente restituita, dove  poi verrebbe poi destinata? Quali sono le strutture museali idonee? Vogliamo continuare destinare opere che il mondo ci invidia a musei di provincia, lontani da qualsiasi rotta turistica, per la caduca vanità di qualche sindaco?.

I musei al di là delle Alpi, di norma, sono autorizzati a vendere loro oggetti in certe circostanze, senza difficoltà. Il Metropolitan per far fronte ai miliardi pagati per il Vaso di Eufronio, mise in vendita un compendio di monete d’oro. La Russia negli anni ’20 per far fronte al crac economico, alienò capolavori del Rinascimento italiano acquistati secoli prima da Pietro il Grande e da Caterina II.

Perché, dunque, anche l’Italia, che potrebbe così abbassare il suo gigantesco debito pubblico, non mette in vendita, intelligentemente, parte del suo immenso patrimonio archeologico – dopo averlo dovutamente protetto e conseguentemente impedito nel saccheggio – magari partendo da quello conservato nei mille depositi (che non si riesce a esporre), da quello dissotterrato e poi ricoperto, da quello noto nelle carte archeologiche ma mai scavato, da quello infine conosciuto ma giacente negli abissi del mare?

Michele Santulli