Quando osserviamo i nostri monumenti vediamo un ologramma, una proiezione di testimonianze materiali sulla superficie del presente temporale. Se non ci sforziamo di percepirne e comprenderne la verticalità con la relativa sovrapposizione delle epoche che si sono susseguite, possiamo prendere enormi cantonate. Per fare un paragone, è come se incontrassimo il fossile di un pesce sulle dolomiti e da questo deducessimo che i pesci a volte vanno in montagna a sciare …
Non funziona così, occorre comprendere la storia e mettersi nei panni di chi i monumenti effettivamente li costruiva, prima di ogni strumentalizzazione posteriore. Fermarsi alla superficie della pietra e coglierne solo la proiezione contemporanea con la sua interpretazione del momento non giova a nessuno.
Un articolo che si autodefinisce “provocatorio” apparso su “Forward.com” (1) a firma di Michael Weiner (2), sulla scia dell’onda iconoclasta sorta recentemente negli USA, in un contesto completamente diverso dal nostro, si propone di distruggere l’Arco di Tito, sostanzialmente per i due seguenti motivi:
- L’arco celebra la vittoria di Roma nelle guerre giudaiche, che furono condotte con una repressione molto cruenta contro i ribelli. L’Arco viene definito come un mezzo di propaganda per celebrare la sanguinosa conquista di Roma
- L’arco è stato utilizzato dai papi come emblema della persecuzione degli ebrei: nel 1555 il papa Paolo IV costringeva gli ebrei di Roma a rinnovare la loro sottomissione ogni anno stando sotto l’Arco. Nel 1821 il Papa Pio VII restaurava l’Arco aggiungendo una targa sul fatto che la restaurazione veniva eseguita anche per motivi religiosi.
E così il malcapitato monumento diventa vittima dell’ologramma e simbolo di qualcosa per il quale non fu costruito.
Per quanto la proposta di distruzione possa essere provocatoria e non seria nell’intento, fa decisamente venire il mal di pancia e ci induce ad alzare la voce con piena forza e determinazione, perché ricordiamo: anche se l’intento può essere solo teorico e provocatorio, la madre degli idioti è sempre incinta e qualche demente potrebbe farsi venire in testa una meravigliosa idea per movimentare le notti romane ai Fori.
Non si condanna la critica alla storia, anche quando questa critica non ci piaccia. La storia stessa non è un flusso di fatti, ma la sua interpretazione che cambia a seconda della società, del tempo, della sensibilità dello storico: ben venga ogni stimolo intellettuale che ne proponga una revisione e offra nuovi spunti di riflessione. Ma l’errore imperdonabile è piegare i fatti e riscrivere le cronache per il proprio uso e consumo. Cancellare un monumento millenario va esattamente in questa direzione, nella distruzione della testimonianza su cui si costruisce l’intera impalcatura interpretativa dello storico. In altre parole siamo di fronte ad un’operazione degna del 1984 di Orwell.
Quindi un rotondo “NO” grande, di puro principio, gridato con forza, comunque si vogliano interpretare i fatti, un “NO” come parola ma pronto a passare all’azione. Senza mezzi termini: chi distrugge i monumenti è un criminale, ma anche chi ne propone la distruzione si macchia di istigazione a delinquere, che è comunque un crimine.
Andiamo allo specifico.
Innanzi tutto ogni popolo ha le proprie pietre da salvaguardare: ne fanno la storia, l’autocoscienza, la finestra su un qualcosa di cui altrimenti non avremmo visibilità, a causa della nostra limitata esistenza. Noi, nati nel ventesimo o ventunesimo secolo, possiamo ammirare un monumento che ha attraversato il tempo come un’astronave da un mondo irraggiungibile. Quel monumento, come una macchina del tempo, parla di noi. In altre parole, l’Arco di Tito è un gioiello di valore incalcolabile e appartiene a noi Italiani, e non si tocca, anzi ci offende il solo pensiero di danneggiarlo. Se il concetto non è chiaro, invitiamo lo studioso universitario a fare un esperimento pensato in direzione opposta: cosa succederebbe se noi Italiani gli stilassimo una lista di monumenti in Israele da distruggere, sulla scia della medesima tendenza iconoclasta? O dobbiamo dire che Israele è vergine e non si è mai macchiato le mani di sangue nell’antichità? Dobbiamo forse citare le distruzioni furiose di Israele nella sua conquista sanguinaria?
Difatti c’è una grande differenza tra la storia di Roma e quella di Israele.
Roma era una città che ha esteso il proprio dominio vincendo uno dopo l’altro tutti i suoi oppositori, mostrandosi accogliente con i vinti ma spietata con i ribelli secondo il principio Parcere subiectis et debellare superbos. La politica di Roma era inclusiva, ossia i popoli sottomessi non venivano sterminati ma accolti nel sistema, compresi i loro culti e i loro Dei. Questo lo si vede fino dai racconti più antichi, come nel Ratto delle Sabine, le quali furono trattate con rispetto e divennero mogli e madri di Romani, sicché si cementò una fratellanza con il popolo Sabino. Questo approccio fu sempre parte dello stato romano, che non difese mai una razza o una religione, ma un’organizzazione razionale di una Stato sorto con l’appoggio dell’universalismo di matrice stoica. Non dimentichiamo come esempio la Constitutio Antoniniana del 212 e.v. con la quale si estese la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero. Questo non accade più in nessun paese moderno, nemmeno in Italia e tanto meno in Israele.
Ora, ci spieghi l’autore della proposta di smantellamento dell’Arco se la storia del suo popolo può vantare la stessa tolleranza.
La Torah (Antico Testamento) presenta una poco invidiabile sequela di stragi sulla base di una fanatica religione che giustificava ogni atrocità per l’obiettivo supremo, “Terra Promessa” che non era libera ma già abitata da altri popoli. Ovviamente non faccio la proposta di bruciare la Torah in nome di tutte le atrocità compiute, perché sarebbe rispondere alla provocazione con altrettanta idiozia, né mi metto a fare esempi su esempi, ma preferisco stendere un velo pietoso sulle vergogne storiche altrui ed evitare una discussione su chi sia stato il peggiore della classe.
Torniamo all’Arco, in particolare sulla prima parte dell’argomentazione dell’articolo: l’Arco come celebrazione della sanguinosa conquista di Roma.
La storia è sostanzialmente cinica, nelle guerre c’è chi vince e chi perde. Nessun popolo è nato dove si trova. Gli Indoeuropei si sono calati in Europa provenendo da qualche parte, i Turchi si sono presi Costantinopoli, gli Yankee hanno sterminato gli indiani e gli Spagnoli hanno messo fine all’impero azteco. Tutti i popoli celebrano le loro vittorie, o piangono le loro sconfitte. Che facciamo, rompiamo tutto? Scateniamo orde di infatuati armati di martelli? Perché non radere al suolo ogni piramide, teatro, strada, ogni luogo costruito con il sudore ed il sangue degli schiavi?
Roma, superpotenza economica e militare, aveva sottomesso la Giudea così come centinaia di popoli. La Giudea, che prima dei Romani comunque non se la passava bene, divenne provincia romana. I condottieri ebrei del tempo fecero male i loro conti ribellandosi a Roma, convinti che Davide contro Golia fosse una regola sempre valida e che il loro Dio, non propriamente un pacifista, li avrebbe sostenuti nella lotta. Ma si fecero del male con la repressione romana che immancabilmente seguì. Dopodiché, con la stessa incapacità di vedere la realtà, ripeterono l’errore una seconda volta e Roma reagì come qualunque potenza antica o moderna avrebbe fatto: con la mano pesante, per sedare la ribellione in via definitiva. Non condanno la legittima aspirazione all’indipendenza di quel popolo, ma le azioni militari vanno condotte con strategia e con la dignità di accettare le conseguenze delle proprie azioni quando si attacca una macchina da guerra come quella della Roma Imperiale del primo secolo. I Giudei persero ed i Romani celebrarono la vittoria, ne più ne meno come facevano tutti i popoli dell’antichità. Il popolo ebraico, legato alla propria religione, usò i propri simboli religiosi come ispirazione e fulcro della rivolta. Ma avvenne quello che accade nel poker: se si mette in gioco una posta alta e si perde, la colpe non è del vincitore, ma di chi ha rischiato troppo. Ai Romani la religione ebraica non interessava: non la capivano e non la sentivano. Tuttavia vinsero militarmente una rivolta ad ispirazione religiosa, per cui la Menorah non rappresentava un ideale religioso ma era, per Roma, il simbolo della rivolta da spezzare, un ostacolo al disegno egemonico di Roma. In altre parole, se sull’Arco di Tito compare la Menorah non è per un accanimento antisemita, ma per la narrazione dei fatti: la rivolta fu presentata come un fatto religioso dagli ebrei stessi. Secondo l’ottica romana la Menorah nell’Arco rappresenta quindi una vittoria militare su un fallito golpe politico-militare ad ispirazione religiosa, di una religione qualunque, e rientra nel bottino di guerra così come, purtroppo (sottolineo “purtroppo”), in quei tempi sempre accadeva.
D’altra parte occorre considerare che gli Ebrei non furono perseguitati nell’impero, ma anzi godevano di un trattamento di favore, in quanto erano esonerati dal culto all’imperatore di Roma ed erano dispensati dal celebrare le festività pagane. Non così i cristiani, la cui religione, a differenza dell’ebraismo, era considerata una perniciosa superstizione e che subirono persecuzioni in certi periodi di tempo, con numeri poi gonfiati dalla propaganda anti-pagana.
In conclusione trasformare l’Arco di Tito in simbolo antisemita a sfondo religioso è semplicemente una falsificazione storica, una balla colossale, un’interpretazione distorta delle finalità del monumento.
Trattiamo adesso il secondo punto, di come l’Arco sia stato utilizzato dai papi e dalla chiesa. Siamo completamente d’accordo. Le fonti confermano l’accanimento perpetuato per millenni dalla chiesa di Roma contro gli ebrei, inventando e fomentando l’antisemitismo. Ma gli ebrei non furono le sole vittime di quell’organizzazione religiosa. Tra i primi ne pagarono le conseguenze i pagani, con i loro templi dati alle fiamme ed i simboli pagani di Roma distrutti (per esempio i Libri Sibillini, il Palladio, lo Scudo Ancile). Un intero mondo fu spazzato via e ancora oggi lo stesso titolo di Pontifex Maximus viene indegnamente usurpato dai papi alla faccia della storia e della religione politeista. Ai pagani nessuno ha mai chiesto scusa per questo scempio. Poi ci sarebbero le migliaia di eretici, vittime di superstizioni religiose similari, sterminati nel corso delle varie epurazioni. Popoli interi spazzati via, come avvenne nella crociata contro gli albigesi. Per non dimenticare delle migliaia di donne perseguitate, torturate e messe al rogo con l’accusa di avere rapporti sessuali con il diavolo: girava addirittura un manuale su come torturare le infelici: il Malleum Maleficarum.
Popoli interi, in Europa prima e negli altri continenti poi, furono battezzati ed annichilati grazie alla “Buona Novella”. L’antisemitismo della chiesa era una delle tante intolleranze isteriche a tutto ciò che ne bloccava lo sviluppo, con l’aggiunta del rancore e forse della gelosia di non essere stati i papi stessi eletti a popolo prediletto di Dio fin dalla notte dei tempi.
Detto ciò, confermato ciò, la nostra posizione sull’Arco di Tito non cambia di una virgola: è da criminali proporsi di distruggere monumenti e pietre che mani esperte di scultori ed artisti hanno modellato. Come eredi di quell’impero, con il nostro senso del dovere e di responsabilità dei nostri padri, siamo pronti a difendere ogni pietra lasciataci dal passato, non solo le rovine dei nostri templi e degli edifici imperiali, ma anche le chiese e le antiche sinagoghe nel nostro territorio, così come erano protette ai tempi dell’Impero. Siamo pronti a combattere qualunque forma di barbarie e difendere la nostra storia, non solo con la penna ma anche con il gladio.
Mario Basile
- The Jewish Daily Forward nasce nel 1897 come quotidiano della comunità ebraica, socialista; oggi The Forward (trad. L’Avanti) è un giornale on line: “Ebraico, Impavido. Notizie che contano per gli Ebrei americani” recitano gli slogan sotto la testata.
- Michael Weiner, Senior presso l’Università di Yeshiva di New York, studia scienze politiche e storia ebraica ha pubblicato sul Wall Street Journal, su Lehrhaus e su The Imaginative Conservative.