Se l’etica diventa etichetta, solo la Virtus soccorre la crisi. Ma ora?

Dedicato a mio padre, esempio di Virtus

Dea_VirtusViviamo in un’era dove l’etica si è sciolta tra mille etichette e gruppuscoli, comprata da un capitalismo regolato solo sulla carta e che ragiona con la pancia, ricercando voracemente l’immediato utile senza guardare in faccia a nessuno, mentre fagocita stati interi. Nelle università, nelle officine, nelle istituzioni, l’etica non è mai stata tanto fuori moda come oggi. Nei brandelli del nostro paese, i politici seguono ogni decimale di gradimento e, con giravolte simili a quelle disegnate delle foglie portate dai venti autunnali, cambiano pareri e opinioni a seconda della convenienza. I separatisti di ieri sono i nazionalisti di oggi, i comunisti di ieri sono i servi delle banche di oggi.  Parlamentari baciano rosari e difendono presepi sulla base di vacue immagini solo per aizzare un popolo confuso e impoverito, perennemente arrabbiato e sempre più ignorante, con una totale assenza di riflessioni etiche o storiche. Altri individui cambiano maggioranze senza un minimo di contegno. La lealtà in politica è ormai sinonimo di ingenuità.

Siamo probabilmente di fronte a una di quelle cicliche crisi della civiltà, quando un cambiamento epocale travolge il vecchio mondo come uno tsunami, quando gli antichi valori soccombono di fronte ad un mondialismo che relativizza e monetizza ogni cosa, tagliando i diritti a fatica conquistati dalle generazioni precedenti. È una pena constatare come oggi, nell’apice della conoscenza tecnologica, siamo alienati ed umanamente perduti.

Accadde ad Atene, dopo la sconfitta dei Persiani a Salamina, nel 480 aev. Il mondo greco trovò la pace e le città-stato ampliarono la loro sfera d’azione, il loro mercato così come la loro ricchezza con il commercio. Ma fu proprio in questo clima di ricchezza che il cittadino greco perse il suo contatto con la polis, in favore di un individualismo estremo, dove si fornì un terreno fertile alla filosofia utilitarista dei sofisti. L’astro di Socrate riuscì a frenare per qualche tempo la deriva morale introducendo un concetto di bene assoluto. Tuttavia la disgregazione sociale continuò in maniera incontrastata dopo le conquiste di Alessandro.

La crisi dei valori comparve anche a Roma, quando l’Urbe si affacciò sulla storia come potenza mondiale, dopo la battaglia di Zama del 202 aev. Prima di allora, Roma era ben salda sulle sue tradizioni. Se in Grecia le tendenze individualiste erano ormai prevalse, causando il fallimento del binomio nomos-polis, a Roma tutti, persino i rivoluzionari, facevano ancora riferimento alla tradizione del Mos Maiorum, il cui fulcro era la Virtus, intesa come disposizione interiore del vir romano verso vari aspetti della vita quotidiana: la Pietas era l’impegno di ogni persona verso gli Dei, la famiglia e ogni altro essere umano, mentre i rapporti sociali erano retti dalla Iustitia, sostenuta dalla Fides come meccanismo di lealtà e fiducia nei rapporti interpersonali, oltre ad altre virtù come la laboriosità, l’abilità, la parsimonia, la semplicità e anche la capacità di restare al proprio posto sul campo di battaglia. La Virtus quindi era l’ideale che raccoglieva nella persona tutte quelle qualità che la comunità agricola e guerriera si aspettava di trovare in un Vir Bonus. La comunità rinsaldava il patto sociale nei momenti di crisi grazie al mutuo riconoscimento della Virtus, che era quindi il collante sociale per eccellenza.

Quando Roma vinse Cartagine, si trovò improvvisamente a gestire territori lontani, con culture diverse, dove mancava il consenso sociale necessario per l’esercizio dell’antica Virtus, per cui i suoi amministratori furono esposti alla tentazione di sfruttare a proprio beneficio personale il grande potere sulle genti straniere, senza il vincolo della tradizione della madrepatria ormai lontana. Persino nella stessa Roma ci si rendeva conto che l’antica morale della società contadina e guerriera del secolo anteriore non era più all’altezza delle responsabilità del presente. Roma era sul baratro dell’individualismo e dell’egoismo esattamente come Atene.tempio-onore-virtu

La presa di coscienza di questo pericolo avvenne grazie alla denuncia di un filosofo cinico, dotato di una mente molto acuta. Nel 155 il greco Carneade fu ospitato a Roma e attaccò al cuore la politica romana con una irresistibile orazione di fronte alla classe dirigente, tra cui l’illustre Catone, dimostrando con la retorica che la politica estera di Roma non era fondata sulla Virtus ma sull’ingiustizia. I Romani, sebbene scandalizzati dalle accuse, semplicemente non avevano i mezzi per controbattere alla cavillosa dialettica greca e persino Catone rimase di stucco, in silenzio, incapace di difendersi. L’empietà di Roma non poteva e non doveva essere vera, ma mancava una visione della missione romana in grado di reagire alla critica.

Se l’incontro di Carneade aveva fortemente demotivato la classe dirigente romana, ci fu un altro filosofo destinato a cambiare le sorti dell’autocomprensione della nuova potenza e quindi della sua storia nei secoli a venire. Il filosofo stoico Panezio di Rodi, attraverso lo storico Polibio, entrò in contatto con Publio Scipione, detto l’Africano, l’ artefice della vittoria sui Cartaginesi, divenuto la nuova guida spirituale della classe dirigente dell’Urbe con il suo seguito di intellettuali e personaggi eminenti raccolti nel Circolo degli Scipioni. Il razionalismo della Stoa e molti dei suoi concetti elementari erano adatti all’approccio pragmatico e positivo del cittadino romano e lo stesso Panezio, impressionato dalla virtù di Scipione e dalle energie positive del popolo latino, contribuì ad adattare lo stoicismo alla mentalità romana, trascurando i cavilli teorici e mettendo l’accento sull’approccio alla vita quotidiana.

Per la mentalità romana era molto facile accettare le basi dello stoicismo, come considerare che l’universo è retto provvidenzialmente dal logos, dalla ragione, la stessa che regna in ciascun individuo e che fornisce uno scopo alla storia, e che i singoli Dèi sono una manifestazione della Divinità Universale, e che Uomini e Dei sono parte di una comunità naturale. Panezio, inoltre, introdusse ed amplificò l’importanza del concetto del dovere, alieno al mondo greco. È dovere dell’uomo obbedire alla legge razionale e seguirne l’obiettivo indicato, la Virtus. In questa maniera la Virtus viene dotata di una giustificazione filosofica e di una dimensione cosmica.

La Virtus, ancorata quindi alla visione del logos, si manifesta nell’attività umana nell’ambito dello Stato. Così la tradizionale aspirazione di un Romano al primato è pienamente giustificata come manifestazione del logos. Tuttavia, essa deve purificarsi ed elevarsi in megalopsychia, ossia in magnanimità, innalzandosi sopra le cose esterne e materiali, ponendo il suo fine non nel soddisfare le ambizioni personali al raggiungimento del comando, ma ponendosi al servizio della comunità. In questa maniera i Figli di Marte svilupparono un concetto di Virtus molto diverso dall’Aretè greca, con una missione basata sul dovere intrinseco alle posizioni di comando, un concetto caro per molti secoli a seguire, per esempio ad Ottaviano Augusto così come a Marco Aurelio molti secoli più tardi.

Al kalòs greco si contrappose l’Honestus romano. Infatti, d’accordo all’antica concezione secondo la quale la Virtus aveva valore perché riconosciuta dalla comunità, Panezio affermò che il desiderio di essere virtuosi ha radici nell’animo umano e il riconoscimento da parte del popolo è la ricompensa più grande ed il presupposto delle attività dello Stato. Honestus è colui che merita l’onore con le sue caratteristiche morali e con il suo operato, officium, che è anche dovere.

Panezio riuscì quindi a fornire a Scipione, e alla classe dirigente romana per i secoli a venire, la giustificazione dell’imperialismo romano, che assicurava il benessere ai vinti, sottolineando che tale benessere dev’essere il principio su cui si ispira il dominio sui popoli soggetti. Se Catone vedeva il Romano ideale come il contadino guerriero legato alla terra, Panezio vede in Scipione l’incarnazione dello spirito di Roma. Scipione, anche secondo lo storico Polibio, era un uomo che aveva sviluppato la sua naturale propensione alla moralità conducendo la vita in perfetta coerenza e piena armonia con se stesso. Scipione era la filosofia incarnata lasciata ai Romani come esempio.

Nel Circolo degli Scipioni, il poeta Lucilio espresse la scala dei doveri d’accordo con la filosofia di Panezio in questo modo: «La virtù consiste nel mettere al primo posto gli interessi della patria, al secondo quelli dei genitori e solo al terzo i nostri».

La ventata stoica venne in soccorso anche alla Religio Romana, attaccata dall’illuminismo greco che stava tentando di dilagare a Roma. Panezio difese la Religio tradizionale pubblica, affermando che era dovere dell’uomo colto vegliare sull’osservanza delle tradizioni religiose dei Padri. Anche se l’uomo colto poteva riconoscere una Divinità Trascendente, l’esercizio tradizionale dei rituali verso gli Dèi e le Dee di Roma era un necessario ed imprescindibile esercizio della Pietas.

Nel campo del diritto, i Romani appresero direttamente dallo stoicismo i mezzi per innalzare la giurisprudenza da pratica legale a scienza del diritto, come affermato dallo stesso Cicerone nella sua opera “Brutus”. L’esistenza di un logos forniva uno strumento per sviluppare nuove forme diritto: allo ius civile si affiancava uno ius gentium, il diritto internazionale. Esiste una base comune tra tutti i popoli e tutti gli uomini, proprio grazie all’eterna legge del logos, onnipresente. Si sviluppa così il diritto naturale fissato per tutti gli uomini dalla stessa natura razionale e presso tutti i popoli. Diviene così possibile parlare di giustizia universale.

virtus2Molti oggi scambiano il nostro seguire la Tradizione Romana come una romantica fuga dalla realtà, dalla quotidianità o un simpatico gioco di ruolo.

Nulla di tutto questo.

Noi non seguiamo un passato idealizzato fatto da soli imperatori buoni e gente onesta: nell’antichità, come oggi, si è visto di tutto. La nostra invece è una testarda reazione alla cecità del mondo moderno, entrato in crisi esattamente come accadde ad Atene e alla stessa Roma in tempi diversi, ma questa volta senza il supporto di una Virtus. Noi non ci conformiamo ad un mondo dove i potenti conquistatori strozzano di debiti i deboli conquistati, sia a livello di Stati, che di imprese, che di posti di lavoro, che di persone, padri e madri di famiglia, e di bimbi esposti al qualunquismo di un sistema non-etico. Affrontare la globalizzazione senza il riconoscimento di un logos comune, di una ragione, di una base condivisa, vuol dire consegnare le genti al massacro sociale e culturale. Noi non cediamo al vuoto etico contemporaneo e continuiamo a credere non solo nell’ideale, ma nella pratica quotidiana della lealtà, del dovere, della Pietas verso la società di uomini e Dèi, attraverso l’esercizio della nostra millenaria tradizione, del nostro calendario, della nostra radice non dimenticata, oggi, qui ed ora, senza fughe, senza sbandamenti, senza timore, a testa alta, sorretti ed alimentati dallo stesso logos cosmico, dalla stessa ragione di chi ci ha preceduti, ma con la rinnovata energia di una fiamma sempre giovane.

Mario Basile

(Kal Ian MMDCCLXXIII)

NB: parte del materiale è stato tratto dall’Opera “La Stoa” di Max Pohlenz.