Idibus Martiis MMDCCLXXVI ab Urbe condita

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In largo Argentina, a Roma, sotto un pino marittimo al confine dell’area templare sacra prospiciente il teatro omonimo dove duemila anni fa si trovava la curia di Pompeo (sede provvisoria del senato in quel tempo in quanto la sede ufficiale era stata distrutta da un incendio) il 15 marzo del 709 a.U.c (anno 44 avanti l’Era Comune) si consumò la tragica fine di Caio Giulio Cesare.

Il dictator si presentò in Senato nonostante i presagi avversi e i tentativi di dissuaderlo di uno schiavo, del maestro Artemidoro di Cnido e dell’aruspice Spurinna.

Secondo le fonti, alle ore 11.00 Cesare uscì dalla sua casa nella Suburra (attuale quartiere Monti) senza scorta e percorse la via Sacra tra due ali di folla acclamante.

Una volta nella Curia, mentre Trebonio, un congiurato, tratteneva il generale Marco Antonio con una scusa, Cesare venne circondato dai cesaricidi.

Tullio Cimbro si gettò ai suoi piedi, come per implorarlo, tirandogli la toga: era il segnale.

Publio Casca colpì il condottiero con il pugnale, ferendolo.

Poi gli altri congiurati gli furono addosso, compreso l’adottivo Marco Bruto.

Caio Giulio Cesare cadde ai piedi della statua di Pompeo – suo nemico nella guerra civile del 49 a.C. – e morì colpito da 23 coltellate.

Di sicuro non pronunciò la frase che la storia narrata, alla ricerca di facili sintesi, gli ha attribuito: Tu quoque, Brute, fili mi.

Secondo Svetonio, magister dell’aneddottica imperiale, emise solo un gemito.

Così dunque moriva Cesare, il più grande romano, il più grande italiano di tutti i tempi: costruttore, stratega, soldato, pontefice, legislatore, fondatore dell’impero (de facto primo imperatore) nonché padre del calendario che tutto il mondo scandisce quotidianamente, senza ricordarsene.

Una rappresentanza del M.T.R. oggi ha doverosamente reso omaggio all’Immortale, deponendo una corona di alloro ai piedi del suo simulacro, su via dei Fori Imperiali.