E’ la forza della parola che presiede e governa la divinazione a Roma

Illuminante saggio del Sabbatucci sulla struttura linguistica che origina e spiega la scienza augurale, da Romolo alla prima Repubblica

(A Roma) lo schema divinatorio di una richiesta di guida nell’azione si traduce in una scrittura sociale in cui ci sono “scrittori” istituzionalizzati che scrivono ciò che i “lettori” altrettanto istituzionalizzati dovranno fare (…). Cerchiamo di riscontrarlo nella struttura linguistica.

Si tratta di una struttura linguistica alla cui base, cioè nei radicali delle parole che la compongono, è già rinvenibile una correlazione a livello fonetico. I radicali sono reg– e !eg- ; da essi derivano rispettivamente i verbi regere e legere.

Regere vuol dire scrivere, segnare, legere vuol dire leggere I due radicali sono correlati dall’essere formati da una liquida più e e g; sono differenziati o resi contrapponibili, dal variare della liquida che nel primo caso è apicale (r) e nel secondo è laterale (1).

La struttura linguistica è formata da due frasi di tre clementi ciascuna (soggetto, predicato verbale, complemento oggetto):

REX REGIT REGIONEM

LEGIO LEGIT LEGEM

Non è una struttura linguistica volta ad una comunicazione occasionale. La sua comunicazione  è istituzionale ed esprime una struttura sociale determinata dall’azione del regere e del legere (ossia dello scrivere e del leggere). Nella struttura linguistica notiamo:

1) L’asimmetria delle frasi; i composti simili, rex e lex, regio e legio, non hanno la stessa posizione nelle rispettive frasi: mentre rex è soggetto, regio (regionem) è complemento oggetto;

2) Lo “scrittore”, ossia il rex, è differenziato dal .lettore, ossia legio;

3) Ciò che viene “scritto”, cioè la regio, è differenziato da ciò che viene « letto », ossia la lex;   

4) il soggetto della prima frase, rex, indica un individuo, mentre il soggetto della seconda frase, legio, indica una collettività;

5) dei composti nominali, soltanto rex è di genere maschile; gli altri, regio, legio e lex sono tutti di genere femminile.

La struttura linguistica rinvia ad una struttura sociale che conosciamo in una versione semplificata: il “re” (rex) che “comanda” o “guida” (regit) una “legione” (legionem). Ma poi passiamo dal semplice al complesso osservando che la struttura linguistica presa in esame pone in due diverse frasi i due termini della struttura sociale semplificata, il “re” e la “legione”; vediamo anche che, separando l’azione dell’uno dall’azione dell’altra, ne specifica il rapporto; vale a dire: le due azioni sono distinte, ma collegate in un sistema.

FlamineQuesta è la struttura sociale complessa, questo è il sistema di cui stiamo parlando:  il ”re” (rex) “scrive-designa » (regir) uno “spazio” (regionem) in cui una “collettività” (legio) “segue il dettato” (legit) di una “legge”(legem). Con il che si spiegano tanto l’asimmetria quanto le differenziazioni della struttura linguistica. L’asimmetria è essa stessa una differenziazione o un modo della differenziazione.

Il soggetto del regere deve essere uno (il monarca), uno deve essere l’oggetto del legere (la lex uguale per tutti) ; donde la comune unicità impone composti simili (reg + s = rex; leg + s = lex). Corrispondentemente, l’oggetto del regere una quantità spaziale (la “regione”) e il soggetto legere è una quantità umana (la “legione”): la concezione quantitativa ha prodotto composti simili (reg + io(n); leg + io(n)).

La differenziazione (e la correlazione) a cui tende tutto il costrutto è in sostanza quella che differenzia (e correla) il regere e il legere, lo scrivere e il leggere, come se le due azioni, sia pure collegate, si dovessero svolgere su due piani distinti, uno contrassegnato da reale attività, l’altro piuttosto da passività. Nel senso della distinzione opera forse anche il genere maschile attribuito al soggetto attivo del regere e il genere femminile attribuito al soggetto passivo del legere. Par­lo di attività e passività non grammaticali ma logiche: il “re” ce comanda e la “legione” che obbedisce alla legge.

I soggetti del regere e del legere agiscono su due piani diversi o in due diverse dimensioni. Al posto della collettività (legio) su cui, secondo le nostre abitudini mentali, dovrebbe esercitarsi l’azione imperativa del “re”, troviamo un’area spa­ziale (regio); pertanto più che di azione imperativa dovrem­mo parlare di azione designativa (d’altronde regere significa appunto “designare). Al posto del rex, quale soggetto logico dell’azione passiva della legio troviamo la lex. Questa visione articolata su due piani o guardante a due dimensioni, una volta ridotta al nostro problema (individuazione di un “mondo da leggere”), ci rende conto di due dissociabili modi di essere: quello di chi (soggetto attivo) “scrive”» (quasi crea)  il mondo e quello di chi (soggetto passivo) “legge” il (ovvero: si adegua al) mondo. Diciamo mondo nell’un caso e nell’altro, ma si tratta di due mondi diversi,  chiama in due mondi che la struttura lingui­stica esaminata chiama in due diversi modi: l’uno, quello di chi “scrive”, è la regio; l’altro, quello di chi legge », è la lex.

Non crea difficoltà poi per noi, la riduzione del “mondo” ad una “regione”, ma forse siamo restii a ridurlo a “legge”; eppure cos’latro si fa quando si parla di una legge dell’universo?

La distinzione tra mondo da scrivere e mondo da leggere, calata in una struttura sociale che non escluda nessuno dei due ma li utilizzi entrambi, ci rende conto della condizione superumana dello scrittore (pur se un essere umano) nei confronti della vera e propria condizione umana che tale struttura assegna ai “lettori”.

Adesso procederemo ad un esercizio logico sulla struttura linguistica che ci ha rivelato i due diversi piani d’azione sociale, quello del regere e quello del legere.

L’abbiamo definita asimmetrica (sia pure funzionalmente asimmetrica). Proveremo a farla diventare simmetrica, trasformando la frase legio legit legem nella frase lex legit legionem. In tal modo i composti simili hanno anche una simile funzione grammatica. lex, composto da leg allo stesso modo con cui rex è composto da reg, è il soggetto della seconda frase in corrispondenza a rex soggetto della prima frase; legio, composto da leg- allo stesso modo con cui regio è composto da reg- è il complemento oggetto della seconda frase in corrispondenza a regionern oggetto della prima frase.

Il nostro esercizio logico è parzialmente giustificato dal fatto che la trasformazione della legio in oggetto grammaticale rende meglio conto della “passività” di chi elegge rispetto “all’attività di chi “scrive”. Ciò che impedisce una piena giustificazione, invece, è il fatto che finisce per personificare una cosa, la lex, e per cosificare persone, la legio. Comunque non è questione di giustificazioni aprioristiche; la questione reale concerne il modello sociale che la frase lex legit legionem dovrebbe significare.

Diremmo che rinvia a un modello che subordina la legio, ossia la collettività, alla lex, più ancora del modello precedentemente proposto; diremmo magari che la lex personificata, ossia assunta a soggetto grammaticale e logico, trascende ogni legge umana. Ma si fa necessario cogliere nel legere, di cui è diventata soggetto la lex, un significato diverso da quello del legere di cui la lex era l’oggetto.

Qui legere non è più leggere ma e-leggere, scegliere. Lex legit legionem può significare soltanto: la legge sceglie la legione. Come l’indovino che “legge” segni scegliendoli e raccogliendoli in espressioni significative (l’astromante i segni del cielo, il geomante i segni della terra, il cleromante i segni della gittata, il chiromante i segni della mano etc.). così opererebbe questa lex che legge. gli uomini, ossia li sceglie e li raccoglie (colli­git da cum-legere) in una “legione”.Re Numa

Questo discorso, proposto peraltro come un esercizio logi­co, ha tutto l’aspetto di un gioco astratto in cui arbitrariamente si personifica la lex e addirittura la si assume al ruolo di un indovino. Però debbo dire che, anche se l’ho presentato come una specie di premessa capace di orientare una eventuale ricerca storica, esso è piuttosto un risultato. È il risultato dell’analisi di un fatto storicamente documentato; dunque è esso stesso orientato dalla ricerca storica. Il fatto storico consi­ste nella formazione della cosiddetta legio linteata, casi come ce la descrive Livio nel 38′ capitolo del decimo libro della sua Storia di Roma.

La legio lienata prende il nome dal lino (linteus significa “di lino”). È una legio storica, e non il concetto di legio con cui abbiamo sinora operato. È una legione speciale che i Sanniti hanno formato ad Aquilonia nel 293 a.C. (durante la seconda guerra sannitica). per fronteggiare l’esercito romano. L’hanno formata seguendo le istruzioni di un liber linteus, un “libro di lino”, letto per l’occasione dal sacerdote Ovius Paccius. Si tratta di un rituale complesso di cui coglieremo i tratti fondamentali.

Fu costruito nel mezzo dell’accampamento uno spazio qua­drato di 200 piedi per lato; Livio lo definisce templum. Il templum fu recintato con una siepe e fu coperto con teli di lino. Vi si eseguì un sacrificio cruento in concomitanza con il giuramento solenne che i futuri membri della ligio linteata erano chiamati a pronunciare. Essi giuravano di prestare obbedienza assoluta al comandante. Giuravano uno alla volta a partire da 10 candidati scelti (lecti) tra i migliori, e accogliendo poi gli altri per scelte successive fatte da quelli che avevano già giurato (secondo la formula del vir virum legit) Probabilmente, in quanto si ricava da un altro passo di Livio (9, 40, 90) riferito alla prima guerra sannitica,  i membri della legio linteata  portavano come divisa una veste di lino bianco.

Nel caso in questione legere assume diversi significati collegati, oltre che dal contesto, dal “ lino”: “leggere” il liber linteus come per una consultazione oracolare; “scegliere o “raccogliere” i componenti della legio sotto una copertura lino; “distinguerli” mediante un contrassegno di lino e. comunque, con il nome collettivo di legio linteata. che verifica concretamente quella che poteva sembrare una formulazione astratta lex legit legionem.

Lex è qui il liber linteus, il linguaggio, la formula del vir virum legit, vestire di lino bianco. Legit qui significa: “sceglie”, “distinguere”, “raccoglie”, “qualifica” etc.. Legionem è il complesso di individui “distinti” o e-lecti da quella lex.

D’altra patte, neppure in questo contesto si perde completamente la vera e propria “lettura”, il legere della struttura linguistica da cui abbiamo preso le mosse, nella quale legio legit legem.  La legio linteata è stata promossa dalla lettura di un libro, il liber linteus. Essa fu quello che fu perché “lesse” il libro per mezzo del sacerdote Ovius Paccius. Il comportamento della legio fu determinato dalla lettura di un libro, così come il comportamento di chi consulta un indovino-lettore è determinato da ciò che l’indovino legge nel “mondo”. Ancora un elemento per inquadrare l’episodio della legio linteara nella pratica divinatoria: il templum; ma questo, come vedremo, è connesso col regere e non col legere.

I Romani avevano un collegio sacerdotale, quello degli augures, che esplicava funzioni divinatorie. Gli augures erano istituzionalmente incaricati di « leggere» i segni inviati dagli dei, allo scopo di adeguare le decisioni pubbliche (umane) alla volontà divina. L’adeguamento agli dei corrisponde in una cultura politeistica all’adeguamento al mondo che abbiamo rilevato nella divinazione cinese, ossia di una cultura non politeistica in senso stretto.

Nel linguaggio tecnico degli augures il termine templum indicava uno spazio sottratto all’uso profano: era lo spazio, sia celeste che terrestre, in cui gli dei si sarebbero dovuti manifestare per esprimere la loro volontà: donde fu chiamato templum l’edificio sacro che, mediante “inaugurazione” (auguratio: l’azione degli augures) veniva assegnato ad un dio come sua sede permanente. I limiti del templum erano idealmente “scritti” dall’augure: il verbo tecnico usato per questa “scrittura” era appunto regere.

L’individuazione augurale dello spazio procedeva da una quadripartizione mediante due assi cartesiani detti rispettiva­mente cardo e decumanus. I due assi fornivano quattro quadranti che, essendo prodotti da un regere, erano detti regiones. A questo livello divinatorio diremmo che l’augure era un rex ovvero il soggetto di quel regere che aveva per oggetto le regiones, secondo la formula rex regit regionem. Ma attri­buire regalità agli augures, sia pure limitatamente alle loro funzioni sacerdotali, contrasta con la situazione storica romana in cui la replica sacrale era esplicata da un apposito sacerdote che portava proprio il nome di re: il rex sacrorum. Direm­mo piuttosto: era il re ad esercitare, in origine, una funzione augurale.

Ora, finché il rex è anche augur, cioè il soggetto del regere in senso augurale, la formula “rex regit regionem” è irreversibile; perderebbe di senso (qualsiasi senso) se la rovesciassimo in “regio regit regem”. Questo rovesciamento è stato possibile per la formula legio legit legem che, anche come lex legit legionem, si è dimostrata storicamente (oltre che logicamen­te) significativa. Però vediamo che appena il rex cessa di essere augur, ossia appena la funzione regale viene separata dalla funzione augurale, anche regio regit regem diventa orienta­tiva. La formula rovesciata orienta su quel rovesciamento stori­co che fu la cacciata dei re e l’avvento della repubblica.

Di fatto il re che troviamo nella Roma storica (e repubblica­na) è il rex sacrorum, un sacerdote. E questo sacerdote era l’oggetto e non il soggetto di una auguratio, ossia doveva essere lui stesso “inaugurato” mediante l’azione degli àuguri.

Il che verifica adeguatamente la formula regio regiti regem. Nel caso del rex sacrorum, infatti, la regio segnata dall’àugure regit – ossia designa, mediante le manifestazioni divine che l’àugure vi legge – regem, colui che dovrà assumere le funzioni del re sacrale.
b9b72817ff5ac5641160f2aa48c6e7deLa realtà repubblicana che rovescia o rivoluziona linguistico sociale orientante la realtà monarchica era presente alla coscienza romana sotto forma di una narrazione: la storia del primo re, del secondo re e dell’ultimo re.

Il primo re rappresenta pienamente la formula rex regit regionem. Romolo è al tempo stesso re e augure. Cicerone nel De Divinatione (1, 17, 30) dice che in Roma si conserva il lituo usato da Romolo. Il lituo era un bastone ricamo che gli àuguri adoperavano per “scrivere” (regere) idealmente le regiones. Mediante quel liuto, dice Cicerone, Romolo direxit regiones quando procedette all’inaugurazione di Roma. Peraltro da un volo augurale di avvoltoi, ricorda la nota leggenda, Romolo trasse il diritto di fondare la sua città contro la pretesa del fratello Remo di fondarne una propria (sull’Aventino); il volo di uccelli era uno dei segni con cui gli dei rispondevano alla richiesta dell’àugure (donde la pratica divinatoria nota come auspicio, auspicium da aves, uccelli, e spicium, osservazione. Né Romolo si limita a “segnare” (regere) lo spazio (regio) celeste da cui ricava l’auspicio, ma, lasciato il lituo per l’aratro, con questo strumento procede a “segnare” (ancora regere) il luogo (regio) di Roma.

Il secondo re di Roma, Numa Pompilio, rappresenta una situazione già formalmente repubblicana anche se immaginata per l’epoca monarchica. È la situazione orientata dalla formu­la apparentemente assurda regio regit regem, ma assurda in regime monarchico, mentre è rivoluzionaria in regime repub­blicano. Numa Pompilio è un rex che non regit, non esercita funzioni augurali; è re ma non àugure, anzi, ha bisogno lui stesso di essere “inaugurato”. All’epoca di Numa la tradizione fa risalire l’istituzione del sacerdozio degli auguri; e il sacerdozio viene istituito proprio per “inaugurare” il secondo re di Roma. Dunque, nei riguardi di Numa, possiamo ben dire che la regio (da cui l’àugure ha tratto l’auspicio) regit (cioè designa) regem (rende re Numa).

L’ultimo re, Tarquinio il Superbo, non è lui stesso augure (come lo era Romolo) né è “designato” dal rito augurale (come lo era stato Numa). In lui si perde ogni contatto con la funzione augurale sia attiva che passiva; perciò egli oltre a vanificare la formula “repubblicana” (regio regit regem) vanifica anche la formula “monarchica” in senso augurale (rex regit regionem). Tarquinio, in verità, realizza appieno l’istituto monarchico, quello nel quale si diventa re per essere figli del re precedente e non per un favorevole responso divinatorio. Nel­la redazione liviana della tradizione, Tarquinio vanta il suo diritto al trono fondandolo esclusivamente sulla sua nascita. Con Tarquinio la formula rex regit regionem perde la dimensione augurale ed esprime appieno la funzione regale: il re definisce o cosmicizza regit) un regno (regionem). Il regno é una “regione” del tempo e dello spazio: esso dura quanto la vita di un re ed è tanto vasto quanto un re lo ha difendendone o accrescendone i confini.

Tarquinio viene cacciato, e con Tarquinio viene cacciato da Roma l’istituto monarchico che egli, il solo e il primo dei sette re, aveva realizzato pienamente.

La struttura linguistico-sociale facente capo a reg/leg, i radicali che abbiamo assunto per indicare la contrapposizione tra lo “scrivere” e il “leggere” (il mondo), nonché le possibili varianti che abbiamo proposto alla considerazione, ci offrono un valido aiuto ai fini di una storia culturale di Roma, per quanto riguarda il suo modo di cosmicizzare il mondo “scrivendo e leggendo” (regendo/legendo). Diciamo “mondo” per dire genericamente un complesso organico: una quan­tità spaziale e temporale, una comunità umana, un sistema di relazioni, una cultura.

Si tratta di un modo di cosmicizzare che individua la cultura romana rispetto a quella di altre città, anche se latine come Roma. Per esempio, rispetto al modo con cui cosmicizzava Preneste, che, almeno stando alla documentazione romana, parrebbe fondato sul sortilegio.

Pratica divinatoria consistente nell’estrazione di “sorti”, una pratica che Roma indubbiamente vietava, come vietava quell’altro ricorso alla sorte che indubbiamente è il gioco d’azzardo.

Vedremo meglio in seguito come stanno le cose al riguardo.

Se poniamo il modo romano di cosmicizzare in una relazione formale con la “cacciata dei re”, cioè in connessione con una cosciente rottura delle formula rex regit regionem, ci si offre la possibilità di definirlo, appunto formalmente come una publicatio. Parleremmo in tal caso di una publicatio nel senso di “confisca” da parte del populus della prerogativa regale dello “scrivere” (regere); ma anche nel nostro senso dipubblicazione” di qualcosa che  è stato scritto. Questo secondo senso si ricava da una tradizione che proietta in epoca monarchica, e nella persona del re Anco Marzio, questa conquista chiaramente repubblicana.

Anco Marzio, dice Livio (I, 38, 2), “ritenendo che la cosa di gran lunga più importante fosse il rendere pubblici i riti istitui­ti da Numa, ordina al pontefice di ricavarli dai registri (commentari) del re e di riportarli in un albo da esporre al pubblico (proponere in publico)”. Qui non si parla di lex, cioè di ciò che la legio dovrebbe “leggere”, stando alla formula legio legit legem; però va ricordato che in Roma, la Roma repubblicana, ciò che produce la lex è la corretta procedura, vale a dire il rito (giuridico).

Nella situazione repubblicana l’antico “scrivere” (cioè il regere) posseduto dal re, diventa, nel suo nuovo uso pubblico, scribere; si distingue ora funzionalmente tra regere e scribere. Lo scrivere- regere vissuto dal rex in contrapposizione al legere vissuto dalla legio, diventa uno scrivere-scribere le leges (preci­samente: i riti che producono leges) mediante le quali si cosmicizza il populus. E in una tale tensione che nel 451-50 a.C. vengono creati i decemviri legibus scribundis.

I decemviri legibus scribundis sono dieci magistrati “eletti” (electi; ritroviamo l’accezione di legere già presa in considerazione) dal popolo al fine di scrivere leggi che il popolo potrà “leggere”. Questo popolo costituisce una nuova comunità di “lettori”: non è più la legio della formula legio legit legiem, ma adesso è una civitass. Il termine legio sopravvive in funzione dell’ordinamento militare, ben distinto dall’ordinamento civico. Regere è sostituito da scribere nel significato di “scrivere”; nel nuovo contesto, dove non c’è più un rex che regendo “scriva il mondo”, la funzione cosmicizzante di segno regale si riduce al guidare-governare: tale è il significato che ancora si attribuisce a regere. Ciò che si “scrive”, comunque, è adesso la legge e non più il “mondo”.

C’è modo di approdare ad una realtà storica, l’ordinamento civile romano. superante l’episodica elezione dei decemviri legibus scribundis. È un ordinamento in cui il popolo sceglie (legit) gli uomini (viros) che produrranno leggi mediante pre­sentazione alle assemblee deliberanti (legis latio, da cui il nostro “legislazione”) o mediante l’azione giudiziaria (legis actio). Scompare la funzione divinatoria: scompare, diremmo il rapporto tra divinazione e cosmologia. ora che son le leggi a cosmicizzare ogni cosa, e le leggi non sono “indovinate”, bensì “decise” da un popolo che, a quanto ci risulta si arrogava persino il diritto di determinare il “sacro”. D’accordo: diciamo pure che al “responso” chiesto ad altri si sostitui­va una “decisione” che il popolo chiedeva a se stesso: però anche questa maniera di fare cosmologia non poté essere completamente astratta da un rapporto con la divinazione. O almeno possiamo considerarlo un modo di fare cosmologia soltanto a patto di subordinarlo, sia pure in una misura appena avvertibile, ad una forma di divinazione. Si è detto che l’antica funzione divinatoria e cosmicizzante era stata ridotta all’esercizio augurale. Bene, proprio a quest’esercizio era sottoposta preliminarmente la facoltà decisionale del popolo. Non è che gli àuguri “indovinassero” se una certa decisione fosse o non fosse la migliore, ma essi dovevano chiedere agli dèi dunque “indovinare” se fossero i migliori il giorno e il luogo fissati per una deliberazione. Il giorno e il luogo di un’assemblea deliberante dovevano essere “augurati”.

giove_capitolino_traiano_2La funzione divinatoria, parzialmente avvertibile nell’azione degli auguri, è totalmente presente in un altro sacerdozio a cui si ricorreva quando il sistema “decisionale” (o anti-divinatorio) era in crisi: i decemviri sacris faciundis.

Diremmo: quando l’assetto civico che abbiamo emblematicamente ravvisato nell’elezione dei decemviri legibus scribemun risultava perdente nei confronti di un’alterità non riducibile ad esso, si rinunciava temporaneamente alla “decisione” e si recuperava la divinazione ricorrendo ad altri dieci uomini, (decemviri) istituiti per questo.

Dal nostro punto di vista che riduce la divinazione allo scrivere/leggere il mondo si fa agevole contrapporre decemviri legibus scribundis e decemviri sacris faciundis come si contrappone chi scrive a chi legge. I decemviri legibus scribundis erano stati delegati a “scrivere” le leggi; i decemviri sacris faciundis erano istituzionalmente delegati a “leggere” una raccolta di oracoli (i cosiddetti Libri Sibillini) da cui ricavavano le prescrizioni rituali (sacra) da compiersi (faciunda) per superare le crisi in atto. I “delegati a scrivere” scomparvero quando la legis latio e la legis actio presero il loro posto (anche la tradizione della cacciata dei decemviri come quella della cacciata dei re serviva a definire l’assetto civico di Roma). Restano, invece, in quanto istituto e non episodica magistratura, i “delegati a leggere”; tocca a loro leggere non leggi umane (o romane) ma le leggi divine scritte una volta per sempre in un “libro”. Bene, questo ”libro” è, dal nostro punto di vista, il “mondo da leggere” quando il “mondo scritto” di volta in volta dal popolo romano veniva messo in crisi.

Vedremo meglio in seguito la validità di questa contrapposizione tra decemviri legibus scribundis e decemviri sacris faciundis. Qui, attenendoci strettamente alla funzione divinatoria, proponiamo un altro confronto: quello tra decemviri sacris faciundis e augures, ossia tra due specie di sacerdoti-indovini istituzionalizzate dall’antica Roma. Gli augures “scrivono” lo spazio sacro in cui “leggono” i segni degli dèi; i decemviri “leggono” in un libro sacro i riti per espiare i segni (di crisi: della collera divina) mandati (e non richiesti!) dagli dèi. I primi agiscono per evocare la divinità, i secondi per esorcizzarla; i primi introducevano all’azione, i secondi rimediavano ad azioni compiute.

Dario Sabbatucci

(“Diviniazione e cosmololgia”, Milano, 1989, pagg 129/140)