Straziato il logo della città di Roma: diventa un blob che parla inglese. Cestinati 2500 anni. C’è un disegno a perdere?

stemmakappa-590x339Più bruttino e scombinato di così non lo si poteva pensare: sembra la réclame di un’offerta poco convinta di telefonia mobile. Invece è il nuovo logo di Roma, l’ultimo affronto ad una città già molto degradata: un blob composto da uno scudo rosso cupo con la scritta inglese ROME & YOU sovrastato da cinque coriandoli definiti “bolle cromatiche”. Lo ha illustrato in pompa magna il sindaco della Capitale al Macro l’11 febbraio scorso, presenti tre assessori, la presidente dell’Assemblea capitolina e la società InArea, che ha l’ha disegnato (e incassato, scrivono i quotidiani, circa 20 mila euro). Sostituirà, in tutte le occasioni “relazionali”, il precedente simbolo della Città eterna, marginalizzato alle sole funzioni istituzionali.
Va nell’angolo, quindi, lo scudo di forma appuntata, di colore porpora con croce greca d’oro collocata in capo a destra, seguita dalle lettere maiuscole d’oro SPQR poste in banda e scalinate, cimato di corona (ducale) di otto fioroni d’oro, cinque dei quali visibili.
Gli strateghi della comunicazione che hanno ideato la “nuova identità visiva” hanno spiegato che “ha come obiettivo la sottolineatura comunicativa dell’esperienza unica e personale che Roma offre: una città multiforme e schietta, da vivere in tutte le sue espressioni, a cui dare del tu. Un piano di riscoperta della natura inclusiva e comunitaria della città, la voglia di recuperare un’autenticità che si ritrova nella dimensione dialogica che Roma instaura con chi ci nasce e con chi ci arriva. Cittadini di ogni età, studenti, lavoratori, investitori, turisti: ciascuno chiede di trovare a Roma il proprio angolo di mondo”.
I critici hanno definito queste parole “aria fritta”, hanno tacciato “d’immensa banalità” il nuovo logo “poverissimo di comunicazione”, hanno gridato all’ennesimo sfregio a Roma, dove “solo il nome restava da vilipendere” (Francesco Merlo su La Repubblica), hanno accusato il sindaco, “già chirurgo a Pittsburgh”, di provincialismo.
Stiamo sicuri che non ci sia anche dell’altro?
Già il fatto che una grande agenzia come InArea – che ha al suo attivo la farfallina Rai, il nuovo logo di Eni, quello di Finmeccanica ed altri importanti – partorisca questo topolino fa pensare abbia avuto direttive stringenti su come operare.
Par, piuttosto, di vedere un lucido disegno politicamente corretto, un progetto relativista-modernista portato all’estremo dal sindaco (e da altri più o meno consapevoli) per destrutturare quel che resta di identitario a Roma. Progetto, ad esempio, già avviato con la chiusura di via dei Fori e l’abbandono del Tevere ed ora giocato su più piani, come anche le proposte di strade del sesso all’Eur e di svendita del patrimonio immobiliare dei cittadini.
Il filo conduttore appare sempre quello di smontare, pezzo per pezzo, identità, appartenenza, contenuti e qualità in omaggio all’idea che nulla può essere certo, perenne e verticale, ma tutto deve essere ibrido, inafferrabile, transeunte e orizzontale.
Se applichiamo il paradigma al nuovo marchio (non a caso definito dialogante, inclusivo, multiforme, per tutte le espressioni), vediamo innanzitutto che sparisce l’acronimo latino SPQR (Senatus PopulusQue Romanus o Senatus Populus Quiritium Romanus) che, come noto, risale addirittura al 509 a.c., cioè a 2500 anni fa.20150211_90473_logo12
In seconda istanza si usa la lingua presunta “universale” inglese, facendo così propria (che servilismo!) la manifestazione principe di un universalismo che è ontologicamente l’esatto opposto di quello che furono l’universalismo originale romano-antico e la secondaria versione cattolico-romana.
In terzo luogo si tradiscono consapevolmente le proprie origini, facendo credere che l’inglese aiuti “a dare del tu”, mentre il tu l’hanno inventato proprio i nostri antenati Romani.
Infine si fa definitivamente scomparire il recente aggettivo “Capitale”: anche se qui siamo d’accordo (Roma non ha bisogno d’aggettivi), va detto che la rimozione è funzionale al disegno perché spazza via ogni riferimento che odori di “gerarchia”.
Si obietterà che il vecchio logo rimane per le comunicazioni istituzionali.
Certo, appare pensata bene. Avremo così il vecchio simbolo per le intestazioni di multe, cartelle esattoriali, sanzioni comunali, tasse sul pattume e balzelli sulla casa, per le insegne sulle auto dei vigili urbani, per i cartelli dei vespasiani, per le vetrofanie sugli sportelli degli uffici davanti cui si impreca, etc., mentre la “nuova identità” sarà usata per i grandi eventi cool, per il tempo libero, per il turismo, per le relazioni commerciali, per i mille gadget, per il red carpet alla mostra del cinema, per i concerti. Quale modo migliore per affossare subliminalmente l’antico simbolo se non la tortura quotidiana dell’associazione mentale con le negatività, premiando invece il nuovo con l’accoppiamento alle positività e allo scic?
In verità, una speranza la coviamo: che il buon senso e il cinismo di una città che sopporta la corruzione a nastro, l’abusivismo commerciale e immobiliare, l’immondizia per strada, gli scarabocchi sui muri di casa sino ai primi piani, i clandestini accampati lungo il Muro torto, i vigili assenteisti a capodanno, gli accattoni molesti ad ogni angolo, abbia uno scatto d’orgoglio e affossi il nuovo sgorbio ignorandolo completamente come fece con le monetine da 1 e 2 cent quando entrò in vigore l’euro .
Quanto al sindaco di Roma, gli dedichiamo appropriati versi del Carducci:
Salve, dea Roma! Chi disconòsceti
cerchiato ha il senno di fredda tenebra,
e a lui nel reo cuore germoglia
torpida la selva di barbarie.

Domus Lases